PRESENT:
Uomo Ragno
#61
“Lei,
dottor Parker, sa cos’è l’effetto di Casimir?”
Peter
era seduto sulla comoda poltrona nell’ufficio di Cheng Long. Era arredato con
discreto gusto. Il mobilio era semplice, sobrio ma l’accostamento cromatico,
mai eccessivo e sottilmente variegato, dava come l’impressione di osservare una
scena che lentamente si muoveva intorno allo spettatore.
“Si,
anche se devo ricordarle che non posso ancora fregiarmi del titolo accademico.”
Cheng
sorrise compiaciuto e replicò: “Conosco persone meno qualificate e talentuose
di lei che ne abusano spesso e volentieri. Comunque, la prego, continui pure.”
L’altro
fece un cenno d’assenso, ricambiando il sorriso e proseguì: “L’effetto di Casimir
si ottiene ponendo una di fronte all’altra due piastre metalliche e lasciando
che la corrente elettrica le attraversi. Dopo qualche istante queste tenderanno
ad avvicinarsi l’una all’altra, come se si sviluppasse una forza attrattiva. Secondo una teoria piuttosto accreditata, la
schiuma quantica tra le piastre si polarizza e la densità di energia dello
stato fondamentale diviene inferiore rispetto a quella esterna, dando vita a
quello che appare come un effetto attrattivo. L’effetto di Casimir è stato
fondamentale per la nascita della teoria dell’energia di punto zero.”
“Molto
bene signor Parker. Le dispiace se ci diamo del tu?”
“No,
anzi. Ti confesso che non sono mai molto a mio agio con le formalità.”
“Hai
descritto bene i caratteri fondamentali dell’effetto di Casimir, ma ne hai
tralasciato uno.”
“C’è
un’altra teoria secondo la quale, nella turbolenza della schiuma quantica
vengono a formarsi una miriade di nano buchi neri e bianchi che si
annichiliscono in continuazione, e da ciò si genererebbero mini wormholes e particolari anti-bosoni chiamati
anti-gravitoni.”
“Le
teoriche anti-particelle dei gravitoni.”
“Antigravità,
per usare un termine da film di fantascienza degli anni ’50.”
“Ed
hai idea del modo in cui potremmo utilizzare tale fenomeno a nostro vantaggio?”
“L’effetto
Casimir potrebbe essere usato per produrre anti-materia e quindi energia in
grande quantità, superiore ai mezzi attualmente in nostro possesso. Però c’è
una questione non indifferente di cui dobbiamo tenere conto: se veramente si produce
anti-materia con l’effetto Casimir, ciò avviene su scala talmente ridotta da
non poter essere usata a nostro beneficio. È un peccato: se si trovasse un modo
di implementarne la produzione sarebbe un sistema migliore dell’estrazione di
positroni dai noccioli delle centrali nucleari o dagli acceleratori di
particelle.”
Peter
dette un’occhiata carica di aspettativa all’altro. La conversazione
sull’effetto di Casimir era tutt’altro che casuale. Sapeva che il progetto a
cui lo scienziato e la sua equipe stavano lavorando era considerato estremamente importante e
coperto dal più stretto riserbo. Aveva intuito qualcosa ed ora non riusciva,
nonostante l’angoscia che si portava dentro per tutto quello che era
ultimamente accaduto, a non provare un forte senso di attesa e la speranza che
gli si dipanasse davanti il sentiero di un’avventura che, con tutte le sue
forze, voleva vivere.
Nei
pressi della Torre di Clifford, Yorkshire, Inghilterra – Lunedì, ore 9.00 a.m.
Il complesso era ancora
incompleto per la quasi totalità della sua imponente estensione e ovunque erano
visibili ponteggi, cavi elettrici a vista, mobilio sistemato temporaneamente
lungo i corridoi. Vasiliky superò con noncuranza una sedia da ufficio
abbandonata a sé stessa e continuò a visionare tranquillamente la cartellina
che Leone Rosso, al suo fianco paziente e silenzioso come sempre, gli aveva
consegnato un quarto d’ora prima nel suo ufficio. Se c’era una cosa che
l’ufficiale greco del Crown non riusciva a fare era star ferma mentre leggeva qualcosa.
“Non possiamo continuare
così Chris,” sbottò infastidita” presto dovremo cambiare nome
alla squadra e chiamarla Excalibur II! Senza contare che abbiamo già fin troppi
membri di riserva su cui lavorare per passarli alla squadra dei titolari.”
“I maggiori finanziatori
del progetto, attualmente, sono britannici. L’abbandono dei tedeschi e dei
francesi ha dato maggiori poteri ai nostri amici di Downing
Street. Fintanto che non riceveremo conferma dell’interesse di italiani
e spagnoli, sarà così.”
“ Hereward il Vigile, un
tizio che ha il coraggio di farsi chiamare Tom il Guardone, come se ci fosse di
che essere fieri nell’avere un nome in codice del genere, e persino le sei di
Enrico VIII! Caty, Ann, Jan, Ann C., Cat
e Cat P. Roba da non crederci!”
“Eppure ho visto le
ragazze in azione e non sono niente male.”
“Non è questo il punto.
Avrei voluto la libertà di sceglierle e non vedermele imposte. Te lo dico e te
lo ripeto: non mi piace tutto questo controllo da parte di questo governo.”
“Purtroppo gli ultimi
risultati conseguiti da Crown non hanno convinto tutti i nostri investitori.”
Leone parlava con la sua
solita rassegnata compostezza mentre camminava. Lanciava distratte occhiate
alle porte ancora prive di qualsiasi indicazione sul chi le avrebbe dovute
occupare o che tipo di ufficio ci sarebbe stato al loro interno.
“Non possono lamentarsi
con noi! Se volevano Quest avrebbero dovuto darmi carta bianca! Invece non
hanno fatto altro che darci una serie di restrizioni al limite
dell’imbecillità.”
Vasso sbuffò contrariata.
Chiuse la cartellina e la agitò come se fosse un ventaglio, provocando una
risatina compiaciuta nel suo amico.
“Come se la starà cavando
il nostro Gunther insieme ai suoi nuovi
compagni di squadra?”
“Spero che non si stiano
ammazzando a vicenda. Mi priverebbe di tre dei pochi membri non inglesi del
gruppo che mi sono rimasti. Piuttosto: hai indagato su quella faccenda?”
“Non c’è stato bisogno di
scomodare i nostri amici dell’MI6. I Giornali americani e internazionali ne parlano in
modo piuttosto diffuso: l’Uomo Ragno è tornato a New York!”
Vasiliky sorrise
compiaciuta e distolse lo sguardo. Sapeva che l’altro si era ormai accorto del
rossore che si diffondeva sulle sue guance ma voleva comunque mantenere una
parvenza di professionalità. Facile a dirsi, difficile a farsi vista la cotta
che si era presa per il tessiragnatele americano.
Piquet scartò di lato per
evitare la raffica di mitra che altrimenti l’avrebbe stroncato.
“Qualcuno usa ancora i
kalashnikov?” Chiese nel suo inglese dal marcato accento catalano. Sapeva che
non c’era molto da scherzare. Non aveva a che fare con il solito pazzo esaltato
in maschera, ma con un gruppo organizzato di terroristi intenzionati a dare
l’assalto al nuovo deposito di stoccaggio di scorie radioattive localizzato a
quaranta chilometri da Eastwood. Frattanto Pié Veloce stava cercando di creare
un diversivo che permettesse al gruppo di spezzare l’assedio di cui gli
estremisti islamici avevano cinto il deposito. Pregava soltanto che quel Gunther non facesse qualche sciocchezza: non
potevano permettersene visto quello che era contenuto all’interno di quelle
mura; il tedesco piombò da mezzo
chilometro d’altezza usando il suo corpo come se fosse un proiettile contro un
gruppetto di cinque uomini. Fu un istante: lo spostamento d’aria Piquet lo
avvertì anche dalla distanza a cui si trovava e per poco non cadde in terra.
Riuscì solo per poco a mantenere l’equilibrio. Pié Veloce imprecò tra i denti.
La sua traiettoria era stata deviata e alcune schegge di pietra avevano
rischiato di ferirlo seriamente. Per sua fortuna se ne era accorto per tempo,
fermandole al volo con la mano.
“ Ma che cazzo ti salta
in mente!!!!” Urlò rabbioso contro il compagno di squadra. Purtroppo la
polvere che si era alzata gli impediva di tornare sul suo bersaglio originale ma, doveva
ammettere, doveva rappresentare anche per i terroristi un impedimento a
continuare nel loro assalto.
Alcuni gridarono delle
incomprensibili frasi nel loro idioma. Piquet e Pié Veloce non avevano bisogno
di un traduttore per capire che si trattava di esclamazioni di terrore. Non
erano uomini che si spaventavano facilmente ma quando videro la tetra sagoma
ergersi dal cratere da essa stessa creato ne capirono il motivo.
Il mantello si muoveva
sinuoso, lacero all’estremità, accarezzato dal vento. La sua figura era alta e
contrastava, nella sua minacciosa oscurità, con il ridente paesaggio di
campagna intorno a loro, bagnato dalla luce di una delle rare giornate di Sole
di cui l’Inghilterra poteva godere. C’era come un inesplicabile alone di morte
che lo circondava. Pareva un’ombra fuggita dal più tetro pozzo dell’ade, un
volto coperto da una maschera di morto ghignante, sospeso minaccioso sulle loro
teste, un boia proveniente da un altro tempo, pronto ad eseguire la sentenza
finale.
Qualcuno tentò, vanamente,
di sparagli contro ma i compagni di squadra di Gunther sapevano bene che il
tedesco era a prova di proiettile. Il sangue gli si gelò nelle vene quando ne
udirono la fosca e stridula risata. Si chiesero, in un momento di soffocante
terrore, se avesse definitivamente perso la ragione. C’era sempre stato
qualcosa di inesplicabile in ogni suo gesto, anche quando era apparentemente
calmo. Una sorta di selvaggia ferocia controllata a stento e controvoglia.
Gunther li osservò
tutti da dietro le strette feritoie della prigione che intrappolava il suo viso
da così tanto tempo che ormai non era più certo di aver mai vissuto senza
indossarla. Trasse un profondo respiro con le nari e il petto gli si gonfiò in
un ostentato, arrogante gesto di sfida nei confronti di tutti quelli che gli
stavano in torno. Scrutò con compiaciuta delizia il terrore sul volto degli
uomini che il terrore avrebbero dovuto portare agli altri.
“Miserabili porci.
Piccoli, immondi cani.” Non riusciva a non provare disgusto al pensiero
della loro paura: erano solo dei vigliacchi che, privati dell’unica arma in
loro possesso, non sapevano far altro che tremare terrorizzati; “Non potete
uccidermi! Mi sentite? PATETICHE CREATURE SUBUMANE!!! Non potete ledermi in
alcun modo! Non potete portarmi via niente! NIENTE! Non potete ferire e
mutilare la mia famiglia! Non potete strapparmi via la mia quotidianità! Non
potete defraudarmi della mia anima!!! LO HANNO Già FATTO PRIMA CHE VOI BASTARDI
SCHIFOSI NASCESTE!!! Ed ora eccomi qui! Invincibile come un dio!” Con un
ampio gesto sembrò voler afferrare il Sole che
brillava superbo sopra di il suo capo” Sono la definitiva macchina da
guerra. Il campione dei campioni. Il cavaliere senza più regno, o Graal, da
preservare! E voi? Voi siete tutti morti!!!”
Nessuno di loro aveva
capito cosa avesse detto nel suo tedesco dagli aspri accenti. Scese in terra,
con studiata lentezza e cominciò ad avanzare contro un gruppetto di terroristi
che, più per reazione isterica che per fermarlo, gli scaricò contro tutto
quello che gli rimaneva.
“Che ne pensi?”
“Molto potente, non c’è
che dire.”
“Secondo il nostro
dossier, in termini di puro potere, è il numero uno del Crown.”
“Però è anche il membro
più instabile. Lo puoi vedere anche tu bene. Secondo te li ucciderà davvero?”
“I suoi compagni
cercheranno di impedirglielo ad ogni costo, anche se credo che difficilmente
riusciranno a fermarlo. Flare non è stata prudente nell’affidare un incarico
tanto delicato a qualcuno con così tanti problemi mentali.”
“Flare ha fatto
allontanare gran parte dei contribuenti dal progetto Crown.”
“Era un buon progetto
all’origine ma dubito che ormai abbia un futuro, anche se non si può mai dire.”
“Hai ragione. Ti ricordi
quando scommisi che la terza formazione dei Vendicatori sarebbe stata
l’ultima?”
“Però sui Fantastici
Quattro avevi indovinato e mi ricordo che dopo il loro crack finanziario, prima
che si risollevassero con quell’assurdo film di fantascienza, 100 a 1. Ai bookmaker venne un colpo quando andasti a riscuotere.”
“E tuttavia la situazione
attuale del Crown mi sembra diversa: non vedo affiatamento tra i suoi vari,
troppi, membri.”
“Per questo vuoi una
squadra con pochi membri?”
“Troppi galli nel pollaio non sono mai un bene.”
“Allora?
Gunther potrebbe fare al caso nostro?”
“No. Non ora,
per lo meno. Non posso correre il rischio di rovinare tutto quello per cui
abbiamo lavorato in questi anni.”
“Potremmo
chiedere un prestito alle Brigate Azzurre. Secondo me, qui in Europa, sono il
gruppo con più potenzialità. Tonio non ti rifiuterà mai un favore.”
“Lo dici tu.
Per quanto riguarda il suo progetto B.A. è molto geloso.”
I due amici
continuarono ad osservare l’avanzata di Gunther che stava
sottomettendo da solo quanti del commando erano ancora in piedi dopo l’azione
congiunta con i compagni di squadra.
Decisero di aver visto
abbastanza. Una improvvisa folata di vento li spinse a stringersi nei loro
soprabiti. Salirono sulla Noble M15 parcheggiata poco distante sotto una
imponente quercia. Il motore posteriore rombò con la sua meccanica veemenza e,
qualche istante dopo, il bolide azzurro sfrecciava lungo la solitaria strada di
campagna.
Un pungo lo colpì al
volto. Se avesse spostato la testa, assecondandone il verso, avrebbe
sicuramente risparmiato al suo aggressore il lancinante dolore che, come una
belva feroce, gli aggredì il cervello, facendolo finire sbavante in terra, tra
la polvere ed i detriti.
Nel corpo c’erano 200
ossa, tra lunghe, brevi e piatte: lui ne aveva fracassate e spezzate a decine
quel giorno; quando, prima del procedimento finale, fu sottoposto
all’addestramento speciale, gli venne insegnato tutto su questo argomento e sul
come romperle per provocare grandi
sofferenze ad un eventuale prigioniero senza però ucciderlo. Vide l’arto
dell’uomo in terra ridotto ad un deforme sacco di pelle pieno di schegge che
avevano bucato dolorosamente l’involucro che le circondava. Sentì una
soddisfatta gioia nel contemplarne la sofferenza. Un altro passo, un lieve
movimento della mano e fracassò una mascella. Arrivò a quello che aveva
identificato come il capo e allora, con rapidità disarmante, lo afferrò alla
gola.
“Allora porco islamico,
dimmi, se parlo la lingua di questi dannati inglesi mi capisci? Voglio che tu
ascolti ogni mia singola parola e te la imprima bene nella mente. Non ho paura
di te. Non ho paura. Ti è chiaro? Vuoi farti esplodere? Fallo. Non mi faresti
un bel niente. Non puoi toccarmi, né tanto meno farmi del male. Non puoi
intimorirmi. Odio te e tutti quelli come te. Senza l’arma del terrore non vali
nulla. Tra poco morirai. Si, hai capito bene. Io non voglio arrestarti. Non
voglio trascinarti in un’aula di tribunale. Voglio ammazzarti come il cane che
sei. Quante donne e bambini sono morti per causa tua? Quanta gente innocente
hai eliminato?”
L’uomo tremava,
completamente disorientato. Non sapeva cosa fare, come reagire. Si sentiva
completamente privo di qualsiasi possibilità di difesa. Allora, come spesso
accade a chi vede ogni schema andare in frantumi e sente essere arrivato il
momento in cui si è privati di ogni possibilità di fuga, crollò e cominciò a
piangere. All’inizio un piagnucolio sommesso, discreto, ancora mascherato da un
virile pudore trasmessogli attraverso l’educazione durante l’infanzia. Poi,
senza più alcun ritegno, una scrosciante sequenza di invocazioni e preghiere
all’indirizzo di quell’essere che mandava in crisi ogni sua idea, ogni suo
credo. La sua fede, solido perno attorno al quale aveva ruotato tutta la sua
vita, ora pareva uno slavato ricordo del passato, un fragile fuscello strappato
dalla tempesta e portato via lontano.
Gunther sentì un forte
attacco di nausea nel realizzare quanto l’altro fosse spaventato. Non riusciva
a provare nessun rispetto per quella che considerava solo una patetica
caricatura di un vero guerriero. Se almeno avesse affrontato la sua morte con
dignità, pensava, avrebbe potuto considerarlo con più rispetto.
Alzò il braccio e chiuse
il pugno, deciso a farla finita. Un singolo colpo e la testa del terrorista
sarebbe esplosa in migliaia di piccoli frammenti viscidi e rossastri.
Il colpo fu fermato a metà
strada. La mano di Piè Veloce stretta saldamente intorno al suo polso.
I loro sguardi si
incrociarono e, di lontano, Piquet che stava correndo verso i due temeva
l’irreparabile.
New York City, Police Plaza n° 1, cortiletto
interno della sezione C.S.U. “Crime Scene Unit” – Lunedì, ore 6.30 p.m.
Dondolava la testa come
una mangusta scrutava i movimenti ipnotici del capo di un cobra, solo che
l’oggetto delle sue osservazioni era immobile lì, davanti a lui. Il bicchiere
di plastica stava lì da un quarto d’ora, carico di cicche che galleggiavano
nell’acqua ormai sporca di cenere e residui di uno dei peggiori caffè che
Oliver Terenzio Rucker avesse mai bevuto. Ne avrebbe volentieri fatto a meno ma
doveva tenersi sveglio e quel piccolo sotterfugio ancora riusciva a fregare il
suo corpo, convincendolo ad andare avanti per qualche altra ora. Brady O’Neil tirò una boccata del suo odoroso sigaro,
un deplorevole tentativo di imitare gli illegali avana sempre più difficili da
reperire anche per i poliziotti come loro. “Dannato Castro e dannato embargo…”
aveva sussurrato qualche minuto prima, costretto ad ammettere con sé stesso
l’errore compiuto nel lasciarsi convincere a comprare quelle imitazioni. Chi li
avrebbe visti non avrebbe mai pensato a due poliziotti di decennale esperienza
e pluridecorati. Erano entrambi in maniche di camicia nonostante il fresco
serale, le cravatte allentate, le camicie sgualcite
e le barbe mal rasate. I volti erano tirati, e gli occhi segnati da occhiaie
che denunciavano un numero di notti insonni ormai troppo alto per essere
sopportato stoicamente.
“Allora, verrà?” Chiese il
poliziotto di origini irlandesi deciso a rompere la monotonia del silenzio
calato tra di loro.
“A chi ti
riferisci?” Fece di rimando l’alto con aria interrogativa.
Brady
lasciò cadere il sigaro sul vialetto di cemento del cortiletto interno
e lo spense passandoci sopra le sue scarpe italiane comprate ad un prezzo che
giudicava folle. Non sopportava quando qualcuno gli faceva un regalo così
costoso, soprattutto sapendo che non avrebbe mai potuto trattarlo con la cura
che avrebbe richiesto, anche se doveva riconoscere che erano molto belle e
comode.
“Non giocare con me. La
parte di quello che casca dalle nuvole falla con qualcun altro.”
Rucker alzò la testa e lo
guardo dalle scalette di ferro semi arrugginito su cui era seduto con un
sorriso strafottente sulle labbra.
“Ho l’aria di uno che
gioca?”
“Hai l’aria di uno che
prende per il culo.”
“Ti stai sbagliando, e
anche piuttosto di grosso.”
“Se non ti conoscessi ci
potrei anche cascare ma ormai non me la dai più a bere. Pabst sta
ricontrollando tutti i profili dei nostri possibili candidati come nuovo Mangiapeccati. Ci sta
dando sotto l’amico, eh?”
“Te l’ho detto. È un vero
professionista. Come lui ce ne sono pochissimi.”
“Non so che dirti.
Sicuramente si mette anima e corpo sulle cose. Chester Perkins, il tuo capo, mi
sembra piuttosto giù di morale.”
“Non stiamo venendo a capo
di nulla e uno dei suoi uomini è morto, mentre l’altro ha la carriera rovinata
e rimarrà segnato a vita. Tu che cosa ne dici?”
“Dico che ti stai
incolpando inutilmente.”
Rucker lo fissò di
sguincio, tirando a sé un ginocchio che cominciò a massaggiare lentamente.
“Se pensi che mi incolpi
per Mansel, sei sulla cattiva strada.”
“Ti incolpi per aver
scelto di seguire il caso del Mangiapeccati anziché quello del Demone. Te lo si legge chiaramente
in faccia. Non hai ancora risposto alla mia domanda iniziale comunque: verrà?”
“Ancora non mi dici a chi
ti stai riferendo.”
“Ho capito.” Alzò
entrambe le mani in segno di resa” Vuoi che ti lasci solo?”
“Te ne sarei grato.”
“Allora è già qui? Questo
almeno puoi dirmelo.”
“Non so di chi tu stia
parlando.” Disse con divertita ostinazione. L’altro sbuffò contrariato e si
limitò a fare un cenno poco lusinghiero al suo indirizzo e ad andarsene.
Asa Pabst osservò di nuovo
tutte le fotografie. Socchiuse gli occhi massaggiandosi il naso con indice e
pollice mentre la fronte si corrugava come quando un pensiero lo tormentava e
lui tentava di indovinarne nome e sostanza. Suschitziky stava cercando di
indovinare cosa gli si agitasse nella testa mentre da un mezz’ora lo osservava
dallo sgabello sul quale era appollaiato.
“Eppure non può trattarsi
di una semplice coincidenza.”
“Di che cosa parli?”
Chiese Peter preso in contropiede dall’improvvisa interruzione di quel silenzio
al quale si era abituato a tal punto da pensare che non sarebbe stato violato
per ancora molto tempo.
“Ci sono degli omicidi che
corrispondono al profilo del nostro uomo. Omicidi che non sono stati compiuti
qui e non di recente.”
“Potrebbero essere degli
omicidi compiuti da Stan Carter prima di trasferirsi a New
York.”
“Stan Carter
compì il suo primo omicidio quando era già nata la personalità delMangiapeccati. Prima di
allora la sua vita è stata relativamente normale. Sappiamo che il
deterioramento del siero sperimentale testato su di lui dallo S.H.I.E.L.D. ha portato alla dissociazione della sua personalità
e all’insorgere di comportamenti aberranti che come sappiamo sono sfociati in
una mania religiosa che l’ha portato ad uccidere quanti riteneva essere
colpevoli di gravi colpe agli occhi di Dio. Tuttavia divenne il Mangiapeccati solo dopo essersi arruolato nella polizia di
New York. I suoi diari parlano chiaro.”
“Quindi questi
omicidi di cui mi hai parlato non potrebbero essere stati commessi da lui. Se
l’avesse fatto e avesse successivamente rimosso?”
“No, non
credo. La mente di Carter era equamente divisa tra la sua personalità
originaria e quella del Mangiapeccati e
quest’ultimo amava il proprio lavoro. Descriveva con zelante dovizia di
particolari le esecuzioni e i rituali che inscenava di volta in volta. Non
avrebbe mai rimosso qualcosa di tanto piacevole come l’uccisione di quello che
per lui era un disgustoso criminale, un peccatore.”
“Lui no, ma Stan si.
Scusami se insisto, ma è tanto per dire qualcosa. Mi sento inutile qui.”
“Sei tutt’altro che
inutile e fai bene a mettere in dubbio le mie parole. Il confronto è quasi
sempre un momento altamente costruttivo. La tua teoria non è sbagliata ma c’è
un problema: Stan Carter non era in grado di uccidere; lo S.H.I.E.L.D. lo tolse
dal servizio attivo perché si accorsero che gli mancava la capacità di eliminare senza rimorsi
eventuali bersagli. È scritto nelle cartelle redatte dagli psicologi della sua
sezione. Per averle abbiamo dovuto fare pressioni a tutti i livelli e
riscuotere ogni favore che ci dovevano in giro. Il dottor Ashton Murphy dice che si trattava
di un soggetto estremamente attaccato all’idea di patria e dovere ma
molto, troppo sensibile e questo gli impediva di
fronteggiare adeguatamente situazioni in cui un agente speciale poteva venirsi
a trovare. Ne raccomandò il trasferimento ad una sezione non operativa.”
“E perché allora fu scelto
per quell’esperimento?”
“Sul tipo di esperimento
condotto, ne sappiamo poco. I documenti relativi sono classificati come livello
rosso, il che significa che ce li possiamo scordare. Sappiamo che il siero
doveva avere un qualche effetto potenziante in origine ma questo possiamo solo
immaginarlo. Il materiale ricavato da quelli di tossicologia è stato
sequestrato in toto.”
“Anche i nostri referti
sul cadavere del bastardo.”
“Così rimaniamo solo con
delle congetture. Se tu dovessi donare dei super poteri a qualcuno, a chi li
doneresti?”
“Super poteri?”
“Si, super poteri. Il
termine può sembrare un po’ antiquato ma in fondo rende bene l’idea.”
“Non so. Ad una persona
degna?”
“Ottima risposta. Stan
Carter era il candidato ideale. Ideale per chi desiderava assicurarsi di non
fornire ad un maniaco omicida super poteri.”
“Eppure Stan Carter si è
rivelato essere un maniaco omicida.”
“Non ho detto che non lo
fosse potenzialmente, ma al tempo sicuramente il suo profilo non lo lasciava
intuire. Abbiamo sempre presa per buona la tesi che sia stato l’esperimento a
renderlo folle ma se avessi tralasciato qualcosa?”
“Di che parli?”
“Stan
non manifestò nessun sintomo di pazzia subito dopo l’esperimento, né durante il
lungo periodo di osservazione a cui fu sottoposto.”
Asa Pabst si
alzò, stirandosi. Si sentì dei leggeri schiocchi provenire dalle sue ossa e
Pete arricciò il naso, infastidito da quel rumore.
“Dov’è che
vuoi andare a parare?”
“Dico che
tutto questo non quadra.”
“E pensi che
quegli omicidi che non possono essere imputati a Stan ma che sembrerebbero
essere commessi da lui potrebbero essere la chiave per risolvere il mistero?”
“Forse… se
riuscissi a capire cos’è che ha innescato la pazzia trasformandolo nel Mangiapeccati
.”
“Sei convinto che non sia
stato quella versione fallata del siero del super soldato?”
“Sono convinto che non è
stata la sola causa. C’è un elemento X che continua a sfuggirmi e sento che è
importante capire di cosa si tratta per risolvere il nostro caso.”
Peter Suschitziky lo
osservò mentre si incamminava nel corridoio, dopo esser uscito dalla stanza,
diretto chissà dove, in cerca delle proprie risposte.
North Street, Harlem, New York City – Lunedì
10.00 p.m.
Era tornato da pochi
giorni a casa sua e già si ritrovava a fare gli straordinari ma dopo quanto gli
aveva detto Rucker si sentiva così inquieto che non era riuscito a prendere il
treno per tornare nel Queens.
Scese silenziosamente
lungo la parete e diresse il fascio luminoso della sua cintura verso il
pavimento dove stavano le sagome di gesso, come tanti fantasmi intenti in una
silenziosa, statica danza. C’era qualcosa di comico, una sorta di composta
grazia naif, come in alcuni vecchi cartoni animati anni ’30, di quelli che lui
e lo zio Ben guardavano in tv la sera o in video cassetta la Domenica quando
era piccolo. Avrebbe sorriso se non avesse saputo che testimoniavano il
massacro avvenuto il giorno prima.
Si stimò a sedere, le
braccia appoggiate alle ginocchia.
Rifletté mestamente su
quanto aveva visto in quei giorni. L’aumento della criminalità paraumana era
ancora in atto, così come il diffondersi di tecnologia sempre più sofisticata
tra chi non possedeva super poteri. Era partito alla volta dell’Europa proprio
per cercare di assestare un colpo al traffico di armi che stava rendendo più
pericolose le gang di New York. Aveva fallito miseramente, questa era la verità
con cui sentiva di dover fare i conti.
In città le cose si erano
semplicemente complicate di più e, a gravare su di lui con il proprio fosco
peso, c’era anche l’emulo del Mangiapeccati.
Era molto tempo che non pronunciava più quel nome nemmeno nella solitudine dei
propri pensieri. A causa sua aveva perso la sua amica, Jean De Wolff, e a causa
sua stava per uccidere volontariamente un essere umano.
“Stan Carter è nella
tomba. Perché non ci sei rimasto anche tu? Maledetto…” Sussurrò con un filo di
voce mentre sentiva la gola gonfia per l’amarezza.
Si divincolò dalla rete
dei ricordi e tornò a dedicarsi a quanto aveva sotto gli occhi in quel momento.
Regolò la luminosità e l’ampiezza del segnale rosato toccando alcuni comandi al
lato della fibbia della propria cintura.
Quel caso era
probabilmente slegato da quello del nuovo
Mangiapeccati, ma doveva comunque accertarsene, senza contare che delle
persone erano state uccise, anche se si trattava di criminali. Si sorprese per
quella cinica precisazione che si era fatto. Qualcosa, nel corso degli anni,
era cambiata dentro Peter Parker.
Scese dalla parete. Un
tempo non lo faceva quasi mai quando si trovava sul luogo dove si era consumato
un omicidio. Per questioni pratiche il suo costume
non aveva stivali. Girava praticamente a piedi nudi. Non aveva problemi, poiché
aveva constatato che le piante, come i palmi delle mani, erano ricoperte da
una sottile pellicola simile nella composizione alla chitina prodotta dai
ragni. Aveva lo stesso colore della pelle ed era al contempo elastica e
resistente, per questo le schegge o i vetri non lo ferivano facilmente. Eppure,
nonostante quella protezione acquisita in conseguenza del bizzarro incidente
che anni prima gli cambiò per sempre la vita, non riusciva ad eliminare la
sgradevole sensazione che qualcosa di detestabile potesse in qualche modo
attaccarsi addosso o, peggio ancora, penetrare fino ad entrargli in circolo.
Tentò di escludere
l’olfatto perché il lezzo della morte gli pungeva impietosamente il cervello,
provocandogli delle fitte di nausea insopportabili. Camminò, in cerca di un
indizio, una traccia forse, improbabilmente, sfuggita agli uomini della
scientifica.
Si chinò di scatto, tanto
rapidamente che il suo assalitore finì con la faccia contro il muro. Saltarono
diversi denti e sangue gocciò la dove già fin troppo ne era stato versato.
“Oh, cazzo!!!” Esclamò un
uomo alto e dall’imponente stazza.
“Ve l’avevo detto io! Non
dovevamo tornare qui!” Piagnucolò qualcuno dall’ombra.
“Stai zitto Ramone!
Qualcuno ha ucciso i nostri fratelli e noi dobbiamo vendicarli! Lo sapevo che
non dovevamo portare un mezzo sangue vigliacco come te!” Rimproverò con voce
intrisa di stentata cattiveria.
“Dov’è?! Dove è sparito?!
Non riesco a vederlo più!” Un altro che invece non si preoccupava di nascondere
la paura.
“Zitti imbecilli!!! Ha
spento quella specie di torcia che aveva! Ora nemmeno lui ci può vedere, perciò
siamo pari! Siamo di più e possiamo sopraffarlo.” Tuonò quello che aveva
parlato per primo.
“Sei sicuro che non vi
possa vedere?”
“Certo che sono si…” si
bloccò. Il sudore freddo gli colava lungo la fronte e sentì un brivido paralizzante farsi strada lungo la
schiena.
Si voltò di scatto, con
rapidità insospettata per uno della sua stazza e assestò un violento
manrovescio. Digrignò i denti in una smorfia di trionfo nell’udire il tonfo che
ne seguì e poi si massaggiò con l’altra mano le nocche dolenti.
“Ti ho sistemato figlio di
puttana!” Esclamò con feroce contentezza.
“Sei stato grande capo!”
Esultò quasi in estasi Ramone.
“ Per una volta sono
d’accordo con te, fottuto mezzo ispanico!” Gli si accodò quello che prima lo
aveva insultato.
“Cala ragazzi. Non abbiamo
ancora finito. Ora dobbiamo vedere chi era il bastardo.” Cercò di trattenere il
loro entusiasmo senza troppa convinzione l’omone.
“Te lo dico io chi era.
Era uno dei tuoi, scimmione ipertrofico.”
Nuovamente il silenzio
calo agghiacciante in mezzo a loro. Fu allora che il capo banda, distinguendo
tra le tenebre grazie a poca flebile luce che proveniva dall’esterno la sagoma
del suo compagno, realizzò il terribile errore che aveva commesso.
Isaia e Jacko erano
entrambi a terra. Il primo per aver caricato senza pensarci su due volte e il
secondo steso da lui convinto di aver beccato quello svitato in calzamaglia che
girava per il luogo dove la loro gang era stata quasi per intero massacrata.
Non voleva correre rischi
perciò estrasse l’artiglieria dal cappotto ma, quasi immediatamente, il fucile
a canne mozze gli venne tolto di mano strappandogli un grido di sorpresa che
non riuscì a soffocare.
“No. Questo genere di
giocattoli non è consigliabile da usare. E poi, non vorrei insistere, ma visto
come hai ridotto il tuo amico, correresti il rischio di mandare al creatore gli
altri con quello, non credi?” La voce lo piccava, cambiando continuamente il
posto da dove proveniva.
“Ragazzi, non muovetevi!
Chiaro?”
“Si capo.” Gli rispose
sempre più spaventato Ramone.
Silenzio.
“J. Cool?” Chiamò
allarmato perché l’altro non aveva risposto.
“J. Cool?” Gli fece
il verso la voce.” Che nome è J. Cool? E poi non mi sembra mica così
fico. Cosa c’è di fico in un tipo che si fa stendere senza praticamente
reagire?”
“Oddio! Ha preso anche J.
Cool!” Urlò isterico Ramone che, senza pensarci su un attimo, si voltò e tentò
la fuga.
“Fermo, pezzo di scemo!”
Gli urlò l’altro, che aveva capito dal chiasso prodotto dalla disperata corsa
cosa stava accadendo ma fu tutto inutile. Ramone non aveva pensato che stava
correndo al buio e si ritrovò a sbattere contro una parete.
“Non mi sembra un tipo
molto sveglio.” Osservò la voce.
“Chi cazzo sei?”
“E tu non mi sembri un
tipo molto educato. Non mi è mai piaciuto il vostro modo di esprimervi. Non
capisco perché dobbiate metterci una parolaccia ogni parola e mezzo che dite.
Voglio dire, da un delinquente non mi aspetto certo le maniere di un collegiale
ma nemmeno quelle di uno scaricatore di porto.”
“Non giocare con me!!!”
“E chi gioca? Volevate
accopparmi e non sono certo dell’umore giusto per giocare. Perciò, amico mio,
facciamo una cosa, tu mi dici tutto quello che voglio sapere e forse non ti
spacco quella zucca marcia che porti sulle spalle e che ti ostini a chiamare
testa…”
Mose Jackson arretrò di
qualche passo, fin quando la sua schiena finì contro una fredda parete. Allora
capì che non c’era nessuna via di fuga per lui.
Queens, sede della Serenity – Sabato (alcuni giorni prima di quanto sino ad ora narrato), ore 3.04 a.m.
Si
trattenne a stento dal mandare un’imprecazione ad alta voce, soffocandola
appena in tempo tra i denti, voltò rapidamente infilandosi in un corridoio
cieco nascosto dall’ombra e attese che il rumore dei passi al suo inseguimento
si smorzasse. L’edificio era piuttosto grande, e questo le dava un certo
margine di vantaggio sui suoi inseguitori, sempre a condizione che non si
lasciasse prendere dal panico. Aveva contato almeno sei uomini robusti, due
armati con delle semi-automatiche. Ripassò mentalmente ogni singola operazione
compiuta, rivedendosi mentre era intenta a tagliare i fili e si disse di aver
eseguito tutto correttamente. Non c’era possibilità d’errore: l’allarme era
stato fatto scattare da qualcun altro; la domanda era chi fosse stato. Né
Eugene, né Derek avrebbero tentato qualcosa di così stupido come non attenersi al
piano tentando di entrare da qualche altra via. Il segnale di intrusione era
silenzioso e veniva trasmesso soltanto ai guardiani via radio. Eugene era stato
così previdente da costruirle una piccola scatoletta che aveva la capacità di
agganciarsi alle frequenze su cui funzionava quel sistema specifico di
comunicazione. Quando ne aveva visto il led illuminarsi di rosso tenue, aveva
immediatamente capito. Se fosse stata colta di sorpresa non avrebbe potuto fare
nulla e, forse, sarebbe in guai molto grossi.
Carl
Hollerbach scattò improvvisamente, gettandosi nel
corridoio ma ritrovandosi a fissare una finestra protetta da una stretta
inferriata.
“Merda!” Esclamò dando un’occhiata intorno. Tutte le porte erano
chiuse, sigillate dal sistema di sicurezza che impediva agli ospiti di
sgattaiolare fuori durante eventuali intrusioni. Qualcuno avrebbe avuto da
obbiettare che la sicurezza, in caso di emergenza o di incendio, non era
garantita per quei ragazzi ma alla Serenity non importava molto di tutto
questo. Pagavano le persone giuste per evitare di avere problemi con la legge.
“ Allora Carl?” Sentì dietro di sé la voce di Alfred Birks che lo
fece trasalire.
“Qui è tutto pulito. La puttanella deve essersela filata o verso
il tetto, o verso i sotterranei, non c’è alternativa.” Si girò puntando la
torcia verso il collega che strizzò gli occhi infastidito. “Allora evitiamo di
perdere tempo qui! Il capo sarà incazzato nero e se non gliela portiamo lo sarà
ancora di più!”
I due se ne andarono via e, un paio di secondi dopo, Dorothy scese a terra delicatamente,
attenta a non fare nessun rumore. Rimanere in quell’angolo, sul soffitto,
puntellandosi con la sua sola forza le aveva distrutto le gambe. Si concesse
solo un rapido massaggio alle cosce e poi si decise a tentare nuovamente la
fuga: rimanere lì dentro avrebbe significato solo una
brutta fine per lei.
Derek si strinse forte a Eugene che gli ricordò nuovamente: “Mi
raccomando, non lasciarmi per nessun motivo o altrimenti farai una brutta
caduta”; quest’ultimo aveva regolato al massimo il getto d’aria dei suoi
booster addizionali. Avrebbe esaurito entrambe le bombolette allocate ai lati
dello zainetto e avrebbe quasi completamente scaricato il serbatoio di gas dei
suoi stivaletti. Non c’era scelta: l’alternativa di lasciare Dorothy da sola
non era nemmeno
da prendersi in considerazione; probabilmente era in grado di cavarsela da sola
ma non voleva correre rischi.
L’accellerazione
improvvisa gli fece quasi arrivare lo stomaco in gola e tentò fece uno sforzo
sovraumano per non dare di stomaco. Si chiese come
avrebbe reagito Derek a quello spostamento così veloce e, dopo aver terminato
il balzo ed essere arrivati sul tetto della Serenity, si affrettò subito ad
accertarsene.
“Hey, Phantom? Tutto bene?” Chiese preoccupato.
“A parte la sensazione di essere sul punto di morire da un momento
all’altro? Si, tutto bene. Una vera favola!” Fece caustico Phantom Rider.
Eugene si sentì comunque sollevato, anche se sapeva che l’altro
stava cercando di minimizzare la cosa. Phantom Rider era un ottimo compagno di
squadra e aveva un’eccezionale capacità di sopportazione. Probabilmente ancora
era dolorante per i lividi riportati durante la rissa con gli spacciatori ma
teneva duro. Sorrise dentro il casco da Uomo Rana, sentendosi fiero ed onorato
di far squadra con lui. Non c’era il tempo per dirglielo. Si limitò solo a
dargli una leggera pacca sulla spalla e si affrettò ad estrarre dalla sua
rana-cintura alcuni gadgets che sperava tornargli utile di lì a poco.
La porta venne spalancata con un calcio, ed i tre uomini che si
ritrovarono sul tetto videro una scena a dir poco bizzarra rivelatagli dalla
luce delle torce: due individui, uno che sembrava voler emulare Casper, il fantasma amico, e
l’altro vestito da Rana; non poterono far a meno di scambiarsi un’occhiata
veloce, indecisi se gettarsi su di loro per pestare duro, o se mettersi invece
a ridere a crepapelle. L’impulso di ridere era forte ma erano dei lavoratori
coscienziosi ed intendevano guadagnarsi la paga. Quella sezione del tetto non era
molto grande e i due non avevano molto spazio di manovra. Eugene si portò
subito via, saltando su di un dislivello un paio di metri più in alto di dove
si trovavano. Sganciò dalle spalle lo zaino, liberandosi della zavorra in
eccesso, e, ormai impossibilitato ad usare l’impianto a gas per le molle, passò
al sistema meccanico. Si concentrò su quello che doveva fare, conscio che la
scelta fatta era la migliore: Derek era un ottimo combattente, decisamente
migliore di lui; senza la capacità di compiere grandi balzi gli sarebbe stato
solo d’impaccio in quell’ambiente ristretto. Così, mentre l’amico sistemava i
tre guardiani, lui aveva invece il tempo di prepararsi efficacemente al dopo.
Phantom
Rider rotolò di lato, evitando un calcio scissore che terminò proprio là dove si era trovato un attimo prima. Gli avrebbe
fracassato lo sterno se gliene avesse dato la possibilità. Andò a finire tra i
piedi di un grosso uomo che doveva aver pensato di prenderlo di sorpresa da un
fianco. Le cose non andarono come preventivate e sbatté violentemente la faccia
in terra, finendo con perdere diversi denti e fracassarsi il setto nasale.
Phantom usò lo slancio acquistato per rimettersi in piedi. Non doveva perdere
tempo: ora aveva il fattore sorpresa dalla sua parte. Aveva infilato idealmente
i suoi due bersagli in un’unica retta e questo significava che quello più
indietro aveva la visuale coperta dal collega. Corse contro quello che aveva di
fronte, per chiudere subito le distanze, e colpì
prima leggermente il braccio, sia per stabilire subito un controllo, sia per
liberarsi la via, dopo di ché assestò un colpo lungo l’asse sagittal mediano,
un paio di millimetri sotto il naso. Le tre nocche premettero con furiosa
violenza contro le ossa del cranio, rompendole, e il pugno proseguì la sua
corsa, come se il vero bersaglio si fosse trovato dietro e quello incontrato
non fosse stato che un mero ostacolo sulla
propria strada. Spostò l’uomo, di stazza piuttosto considerevole, scaricandogli
contro tutto il proprio peso e mandandolo a finire contro l’altro che riuscì a
scansarlo ma non ad evitare il calcio intrusivo di Phantom Rider che gli arrivò
alla bocca dello stomaco. Tossì con violenza, e alcuni schizzi di vomito gli
volarono via dalla bocca. Poi tutto divenne scuro mentre un paio di colpi di
taglio lo mandavano nel mondo dei sogni.
Due
gorilla salirono, a dispetto della stazza, rapidamente la scala che portava sul
tetto. Gli auricolari avevano trasmesso qualche grido strozzato e poi dei
rumori indecifrabili ed ora stavano correndo a prestare soccorso agli altri che
erano saliti un paio di minuti prima per controllare che l’intrusa non fosse
lì. Non fecero in tempo ad arrivare alla soglia che videro saltellanti, un paio
di ranocchiette meccaniche. Si bloccarono immediatamente, portando le mani alle
fondine dove stavano le glock d’ordinanza che gli erano state fornite. Il
sensore fornito da Scorch però era molto efficace e il piccolo elaboratore
aveva già interpretato il segnale che gli era stato trasmesso. C’era un corpo
in movimento lì davanti e un attimo dopo le due rane saltarono contro i
bersagli scaricandogli contro una scossa stordente. I due ruzzolarono malamente
all’indietro, sbattendo rumorosamente sui gradini di ferro della scala.
“Santo
Iddio!” Esclamò spaventato Eugene. Quando aveva lanciato le rane non aveva
pensato che avrebbero potuto far cadere pericolosamente all’indietro i
bersagli.
“Cosa
fai?!” Lo ammonì subito Phantom Rider bloccando l’amico che stava per corrergli
contro.
“Potrebbero
essere…” non riuscì a terminare la frase talmente era la paura. Sentì un
tremore diffondersi lungo tutto il corpo e quasi si sentì mancare il fiato.
“…ancora
svegli, e piuttosto incazzati!” Si affrettò ad aggiungere in tono fermo Phantom
Rider. Non voleva che il compagno andasse nel panico proprio in quel momento
delicato. Lo precedette, scendendo rapidamente le scale. Si fece prossimo ai
due corpi e si sincerò che stessero ancora respirando.
“Tutto
bene! Ora andiamo!” Non voleva certo aggiungere che il fatto che respirassero
non implicava che non avessero subito gravi danni al cervello, ad esempio. Né
voleva fargli notare che un’arma come quella da lui usata era comunque e sempre
pericolosa: se la persona fosse stata cardiopatica, o avesse sofferto di
epilessia, o avesse avuto i piedi nell’acqua, o fosse stata bagnata…; restituì
all’amico la pacca che aveva ricevuto sul tetto, porgendogli rane da cui
proveniva un lieve ticchettio. Si stavano ricaricando. Avrebbero potuto usarle
un’altra volta, dopo di ché sarebbero state completamente fuori uso, almeno
fino a quando non le avessero collegate ad una rete elettrica. L’Uomo Rana le
mise dentro le sacche nella cintura e nelle mani si assicurò di avere un paio
di quelle che chiamava “rimbalzine infernali”, un’altra sua invenzione che
andava ad ampliarne il curioso arsenale.
“Scusami,
Phantom, ma ho avuto una paura. Senti, per prima…”
“Non
c’è problema capo! Hai fatto la cosa più giusta.” Si affrettò a
tranquillizzarlo Derek. Si scambiarono un cenno d’assenso reciproco con il capo
e poi tornarono alla ricerca dell’amica.
Lasciò
cadere il guanto sul comodino, ascoltando soddisfatto il sordo tonfo che ne
venne fuori. Studiò con diligente attenzione ogni particolare: le cuciture
esterne, discrete, ordinate, come linee melodiche appena accennate che si
perdevano nell’elegante lirismo di un offertorio o di un requiem.
“Senza
la speciale fodera interna, non basterebbero a salvare le persone intorno a me
dal mio tocco. Sai cosa significa per me doverli tenere sempre su? Hai idea di
cosa voglia dire camminare lungo una strada e dover prestare attenzione a tutto
quello che ti accade intorno? Se per errore dovessi toccare qualcuno, anche
solo per un istante, lo condannerei ad una fine certa e dolorosa. Decisamente
fastidioso. “ Osservò con amarezza.” È per questo che evito tutti
i grandi centri. Con le loro folle perennemente pervase da quella stolida
frenesia che le spinge a schizzare da una parte all’altra in modo così
imprevedibile, sono gigantesche gabbie le cui pareti invisibili gravano
soffocanti su di me. Venire qui per me è stato uno sforzo non indifferente.”
Daphne
Milles abbozzò un sorriso in risposta ai capricci da diva di Bruce Shoedsack.
Quest’ultimo aveva tagliato i capelli, che ora arrivavano sino alle spalle,
scalandoli leggermente. Nel complesso non era di certo brutto, pensò lei. Non
si poteva definire un bell’uomo ma c’era qualcosa di attraente in quelle sue
curiose asimmetrie nei lineamenti. Quello che spiccava veramente era lo sguardo
che dardeggiava da dietro ciocche corvine che cadevano ora disciplinate sulla
fronte. La carnagione era di un indefinibile color miele, sì da far pensare a qualche discendenza particolarmente
esotica. Nel suo metro e sessantanove c’era una malcelata, crudele e
selvaggia ferocia mai veramente addomesticata e pronta ad esplodere ad ogni
istante. Difficile credere che fosse stato un giovane e brillante ricercatore
anni addietro. Si chiese quanto dell’uomo che era stato sopravvivesse ancora in
quel killer così dedito al suo lavoro.
Lui
non si preoccupò minimamente di nascondere gli sguardi di desiderio con cui
ogni tanto la squadrava, quasi volesse strapparne con gli occhi qualche brano
per gustarlo con lascivo appetito.
“È
proprio per questo che ti abbiamo riservato questa camera, Bruce, per
compensarti delle tribolazioni che devi patire per noi.” Lo canzonò con
divertito distacco Daphne.” Questa stanza costa quasi quattrocento
dollari a notte. L’avrai capito dall’eleganza delle stuccature che adornano il
soffitto, dal pregio dei legni di cui sono fatti i mobili, dal fornitissimo
frigobar che hai già provveduto a saccheggiare, dal tv ultrapiatto al plasma alla parete e dall’idromassaggio Jacuzzi in cui sogni di
potermi portare per dar sfogo ai tuoi più brutali e libidinosi istinti.”
Lui fece un mezzo inchino, sorridendole allegramente: “Touché, madame. Però sono ben conscio che non mi lasceresti mai
fare. Del resto sai fin troppo bene che venire con me significherebbe morte per
te.”
“Se solo provassi ad avvicinarti più del dovuto, smetteresti di
respirare prima di quanto tu non possa credere.” Lo ammonì amichevolmente la
donna che si accomodò su di un’elegante poltrona dal design moderno e
piacevolmente morbido.
“Ne
sono certo. Sono anche piuttosto contento della stanza dove mi trovo, non
credere che non la apprezzi ma questo non vi rende certo migliori ai miei
occhi.”
“Ci
siamo occupati di te, salvandoti da una vita di miserie.”
“Vi
siete occupati di me non certo per spirito umanitario. Avete visto un
potenziale agente in me e mi avete reclutato a forza. Per voi non sono molto
diverso da una qualsiasi arma che avete in dotazione, solo un po’ più loquace e
caustica. Il giorno che non vi sarò più utile probabilmente mi ritroverà
qualcuno in una bella vasca come quella, sbarbato e garrotato di tutto punto.”
“Su
questo ti sbagli.”
“Ah,
davvero?”
“Non
ti ritroverebbero mai. Saresti su un lettino d’acciaio, dentro una cella
frigorifera di un nostro laboratorio, a disposizione dei nostri scienziati. Inoltre,
se la vogliamo dire tutta, anche in caso contrario non useremmo mai la garrota:
ti suicideremmo così bene che nessuno sospetterebbe mai nulla.” Gli strizzò
l’occhio con aria da bimba furbetta, provocandogli un brivido lungo la schiena.
Doveva ammetterlo: Daphne Milles era una stronza ma con classe da vendere; il
suo petto si sollevava leggermente, seguendo un ritmo preciso. I seni erano
trattenuti dal reggipetto ma li immaginò liberi di ballonzolare in ogni dove
mentre il suo respiro diveniva sempre più veloce. Il calore di un corpo premuto
contro il proprio, i gemiti, i sospiri, la sensazione di scivolare in qualcosa
di vivo e vitale era un ricordo ormai lontano: quando voleva avere una donna
sotto di sé, sapeva che doveva accontentarsi di un cadavere, ancora caldo, ma
pur sempre un cadavere; i preservativi speciali non funzionavano. Quando era
eccitato la secrezione di tossine aumentava esponenzialmente, al punto che si
diffondevano in minima parte anche per via aerea. Il problema era che anche una
minima parte significava morte per il partner. Anche se questi avesse
trattenuto il fiato o si fosse munito di bombola, sarebbe morto uguale: alla
fine le tossine passavano attraverso i vestiti e la pelle…; aveva tentato con
una tuta isolante ma l’eccitazione di farlo con un siffatto rivestimento era
pari a zero. Si era perciò dovuto accontentare di quei macabri rapporti consumati molto spesso dopo
un lavoro. Le sue prede preferite erano tossiche e prostitute. Qualche volta
sceglieva le ragazze dei peep show, convincendole a guadagnarsi qualche decina
di dollari extra, gli ultimi della loro vita. Per un suo particolare
convincimento morale, lasciava sempre del denaro alla vittima, perché tutto
sommato gli sembrava giusto pagare ugualmente la prestazione pattuita, anche se
la loro partecipazione era inevitabilmente molto limitata. Non era un necrofilo
e ne avrebbe volentieri fatto a meno di quella pratica ma c’era qualcosa che
non andava con i suoi ormoni. Probabilmente uno squilibrio dovuto all’evento
che ne aveva cambiato la vita anni addietro. Lo pervase una mesta tristezza.
Ricordò che tra le prime cose che aveva pensato di fare c’era stata
l’intraprendere una carriera come super eroe. Quando, con il passare dei
giorni, manifestò la facoltà di uccidere semplicemente toccando, la sua
esistenza come era stata prima finì definitivamente. Benediva continuamente
quella sadica, ferina cattiveria che pareva averlo pervaso. Anestetizzava
meravigliosamente bene ogni cosa: rimorso, rimpianto, dolore;
“Scommetto
che saresti bravissima in questo.”
“Chi
ti dice che lo farei io?”
“Tu
non ti priveresti mai di questo piacere. Potermi uccidere con le tue delicate
ed affusolate manine.”
“Ora
devo darti proprio ragione. Quindi se vuoi che mi privi di questo piacere un
altro po’, cerca di giustificare tutti i soldi che spendiamo per te.”
“Posso
anche starti sullo stomaco, però non puoi di certo negare che non vi ho mai
deluso. Ogni incarico che mi avete dato è stato portato a termine con
professionalità e successo.”
“Ammetto
che non sei male come agente.”
“Ed
io ti ringrazio per il complimento. Tuttavia non mi hai ancora detto
esattamente chi è questo cadavere che cammina.”
Lei
posò una cartellina su un tavolino nei suoi pressi.
“Tutto
quello che ti serve sapere è qui dentro. Quando avrai finito di leggere, ti
basterà togliere la pellicola che copre ogni foglio.”
“Autodistruzione?
Wow! Certa roba una volta la vedevo solo nei film!”
“Ora
sei contento?”
“Certo!
Mi fa sentire uno di quegli agenti al servizio di sua Maestà, sempre impeccabili
ed imperturbabili.”
“Pensa
al tuo lavoro. È un incarico molto importante. Non ci hai mai delusi, questo è
vero, ma non pensare di cominciare proprio ora.
Si
alzò e senza aggiungere altro uscì dalla stanza con passo marziale ed austero.
Bruce
si sedette là, dove pochi istanti prima era stata lei e ne avvertì il tepore di
cui aveva impregnato la sedia. Inspirò l’afrore della sua pelle che ancora
aleggiava in quel punto e si disse che sarebbe stato interessante capire perché
i suoi principali non si fidavano più di lei.
Casa
dei coniugi Parker, Forest Hills, Queens,
N.Y.C. – Lunedì, ore 11.00 a.m.
Continuava
a spostare lo sguardo da una parte all’altra del salone e ancora non riusciva a
prendere una decisione definitiva. Tornò a contemplare il foglio sul tavolo e
registrava mentalmente tutte quante le modifiche apportate.
“Troppo
estremo.” Sussurrò. Quando aveva disegnato il costume di Ricochet per suo
marito si era sbizzarrita ma adesso era completamente diverso. Quello doveva
essere un giovane e spregiudicato mercenario, il classico super uomo che viveva
pericolosamente, continuamente al limite. Non poteva fare la stessa cosa per il
lavoro che Peter le aveva affidato. Non aveva, per così dire, mano libera.
C’era una tradizione da rispettare. Si concesse un sorriso pensando che tutto
sommato erano passati all’incirca dieci anni da quando il suo uomo aveva
disegnato il primo modello. Sembrava tanto, tanto tempo. Era curioso ripensare
a quei giorni, all’”alba delle meraviglie”. Così chiamava quel periodo che come
un sogno scorreva come un placido fiume nella sua memoria. I telegiornali ne
parlavano in tono quasi imbarazzato, come quando si da una notizia talmente
bizzarra da suonare grottesca o, persino, falsa. I giornali gli dedicavano le
pagine delle curiosità. In generale le persone ne chiacchieravano con un
sorriso beffardo mentre si era in fila al supermercato, o alla posta.
Mistificazione, trovata pubblicitaria erano le parole che sentiva ripetere
spesso. Gli anziani osservavano tutto con scetticismo, al più con sufficienza.
C’era però un vecchio reduce della Seconda Guerra Mondiale che se ne stava
quasi sempre seduto all’ombra del portico della sua vecchia casa dalle mura
rosse.
“Stanno
tornando.” Ripeteva solitario ridendo al vento. Tutte le mattine, mentre
passava per andare a scuola, lo sentiva.
“Stanno
tornando.” Immutabile, stolido come avrebbe potuto esserlo una di quelle
interminabili litanie di chiesa che detestava.
“Ma
chi?” Chiese un giorno, sbottando improvvisamente, quasi volesse canzonarlo.
Per tutta risposta lui non si scompose minimamente. Continuò a sorridere e, con
infinita dolcezza, le rispose come se la conoscesse da sempre: “L’ho capito
subito. Quando vidi Capitan America a Quantico. Venne a farci visita, sai? E
con lui c’erano gli altri: Bucky, Sub Mariner,
la Torcia Umana e Toro; era come in quei vecchi racconti di dei ed eroi che
leggevo di nascosto da mia madre. Diceva che erano letture sconvenienti, che i
greci erano una massa di depravati senza Dio, una massa di pederasti licenziosi
le cui anime non erano nemmeno buone per l’inferno. Povera la mia buona vecchia
mammina. Invece io leggevo, leggevo ed ero innamorato di quelle storie e alla
fine, vidi che avevano preso vita. Il mito era divenuto realtà. E sai cosa
succede quando il mito diviene realtà? La storia cambia piccola mia, e cambia
irreversibilmente, per sempre!” Poi il vecchio si acquietò per qualche istante,
e M.J, allora poco più che una ragazzina, gli chiese se stesse bene,
preoccupata improvvisamente che in qualche modo potesse aver avuto un malore,
pentendosi di averlo preso in giro, anche se senza cattiveria. “Stanno
tornando.” “Chi?” Chiese lei. “Loro.” Poi cominciò a piangere, singhiozzando
come un bimbo. “Signore? Che le succede?” “Torneranno, bambina. Torneranno ma
stavolta ci giudicheranno. E quando ci giudicheranno? Oh, piccola mia, allora
guai, guai, guai per tutti noi, perché tanti sono i peccati che dovremo
scontare.”
Si
scosse. Ogni volta che aveva ripensato a quella frase aveva provato un senso
d’angoscia opprimente e stringente che le sussurrava fosche previsioni per il
futuro. E così, quando la meraviglia che inizialmente si diffondeva tra i suoi
coetanei che guardavano con riverente speranza agli eroi che sorgevano
all’orizzonte come tanti luminosi, ed inevitabili, soli, cominciò a contagiare
anche gli adulti, lei non riusciva a scrollarsi di dosso quel vago senso di
minaccia. Gli attacchi spasmodici e spesso insensati del Bugle l’avevano sempre
irritata ma non poteva far a meno di dirsi che forse, in quelle farneticazioni,
c’era un fondo di verità. Quando le macchine d’Atlantide emersero dal fondo
dell’oceano, quando un dio stellare discese dalle immense profondità dei cieli,
quando creature di altri mondi si batterono senza quartiere nelle strade in cui
camminavano tutti i giorni, allora quelle parole le tornavano alla mente. Tutte
le volte gli eroi li avevano protetti e salvati. Tutte le volte. E più li
proteggevano, più le persone sembravano temerli. Dopo ogni trionfo, dopo
l’euforia iniziale, il dubbio assaliva le persone con sempre più forza. Per
ogni eroe che nasceva, c’erano decine di super criminali. Per ogni impresa
entrata nella legenda, una sconfitta, un nuovo orrore che costava la vita a
centinaia e centinaia di innocenti. C’era qualcosa di inesplicabilmente tragico
che pareva accompagnarli in ogni loro passo, dal momento della loro comparsa.
Sarebbe andata a finire veramente come aveva predetto il vecchio? Alla fine,
stanchi dell’oscillare dei loro protetti tra paura ed adorazione, i protettori
sarebbero divenuti giudice e giuria di tutta l’umanità? E cosa avrebbero
decretato?
Guardò
il simbolo sul petto. “Semplice, efficace e diretto.” Si disse. Comunicava
immediatamente tutto quello che c’era da sapere, un po’ come la stella sul
petto di Capitan America. Ripensò alla conversazione con Peter sulla genesi del
primo costume. Sottovalutava davvero tanto il suo talento artistico e se lo
avesse coltivato di più sarebbe divenuto qualcuno. Si batté un dito sulla
tempia, nella speranza che da quel tamburellare ne sarebbe scaturito qualcosa
di buono, magari qualche idea. Tutto sommato il suo Ricochet era decisamente
pacchiano. “Sembrava uscito da un film fine anni ’70. Se avesse avuto i
pantaloni a zampa sarebbe stato in pieno stile disco music.” Si rimproverò
scoraggiata. Prese un paio di fogli, che teneva sotto il blocco. In uno aveva
riprodotto, in base ad alcuni appunti giovanili di suo marito, una versione
alternativa del costume mentre nell’altro, il costume dell’Uomo Ragno del 2099.
Era stato strano incontrare l’epigono futuro di Peter. Sembrava una brava
persona e Peter gli aveva confermato la cosa. Inoltre il costume era davvero
bello, anche se un po’ tetro. Indubbiamente un design accattivante e
decisamente futuristico. Picchettò con la matita sul foglio. Cercava
l’ispirazione, la scintilla creativa che le avrebbe permesso di apportare
l’ammodernamento che cercava. Si era scaricata decine e decine di disegni dalla
sezione fan art dal sito degli “Amici dell’Uomo Ragno”. Alcuni erano interessanti
ma a suo avviso non quello che ci voleva per Peter. Il suono del campanello la
fece trasalire. Si rese conto solo in quel momento del tempo trascorso. Non
aspettava nessuno e si chiese chi potesse essere. Quando guardò allo spioncino
ebbe una gradita sorpresa. Aprì la porta e lui era lì, in jeans e camicia a
quadrettoni.
“Ciao.”
La salutò affabile Ricardo Ligeti.
L’edificio
abbandonato Brook’s Shoes, Queens – Martedì ore 5.00 a.m.
“L’insonnia
è un gran brutto male.” Disse affettuosamente Peter. Terenzio Oliver Rucker
stava affacciato al parapetto del tetto dell’ex calzaturificio. Si trattava di
una costruzione discreta, risalente agli anni ’50, tutta mattoni rossi e grandi
finestre. Zio Ben ci lavorò da giovane, tutti i fine settimana, per arrotondare
lo stipendio e mettere da parte i soldi per comprare la casa dove aveva vissuto
con zia May e in cui lui era cresciuto. A Peter quell’edificio era sempre
piaciuto. Avevano provato a trasformarlo in una fabbrica di prodotti alimentari
ma fu un’impresa finita male. I permessi non
arrivarono e l’azienda che l’aveva comprata preferì non investirci altri soldi
e così l’aveva recintato e lasciato andare in rovina sotto il Sole e la
pioggia. Era come un’animale che stava dolcemente lasciandosi scivolare verso una
morte serena ed indolore. Lo osservava tutte le mattine, dal pulmino della
scuola, filtrato da un finestrino sporco o troppo appannato. Quella sagoma lo
catturava trascinandolo verso una dimensione temporale distante eppure così
familiare, quella dei racconti di suo zio.
“Quando
mio padre aveva l’insonnia, ingollava un po’ di cioccolata calda corretta con
il rhum. Aveva la glicemia alle stelle il vecchio, ma dormiva che era un
piacere.” Rucker sorrise ripensando a quell’uomo che sembrava così burbero ma
sempre pronto a fare battute o raccontare barzellette.
“Zio Ben
ci andava più leggero: camomilla; non beveva alcolici. Non sempre. Zia May
l’avrebbe ammazzato. Amava la birra scura irlandese. Diceva che dall’Irlanda
venivano tutti i Parker e che un po’ di Irlanda toccava rimettersela nel
sangue, ogni tanto e con moderazione. Prendeva un barilotto al Donelaith, un
pub che frequentava prima di sposarsi. Il barilotto gli durava un anno. Un
mezzo bicchiere il Venerdì sera con gli amici ed uno la domenica, perché diceva
che alcuni irlandesi trovavano più appropriato lodare con la gola bagnata dalla
buona birra scura il nome del Signore. Non l’ho mai visto ubriaco. Non l’ho mai
visto nemmeno solo brillo o barcollante. Una volta però zia mi confessò di
averlo visto tornare a casa dopo aver alzato troppo il gomito. Lei pianse, lo
rimproverò e lo mandò a dormire sul divano. Il giorno dopo lui giurò che non
sarebbe mai successo e così è stato.”
“Sai una
cosa ragazzo, credo che tua zia sapesse del piccolo segreto di tuo zio.”
“Lo credo
anche io. Zia sapeva che un uomo ha bisogno di avere qualche piccolo vizio per
essere felice.”
“Anche
tua moglie lo sa?”
“M.J. me
ne lascia passare talmente tante che ho perso il conto. Pensa, tollera persino
il mio hobby di lasciarmi penzolare sopra mezza Manhattan appeso ad un filo di
ragnatela. Incredibile, nevvero?”
“Gran
donna tua moglie. Se sei sveglio la metà di quello che sembri, figliolo, te la
terrai ben stretta fino all’ultimo dei tuoi giorni.”
“E anche
oltre.”
“Amen.”
L’alba
era un bel momento. Piaceva ad entrambi. Il mondo cambiava nell’arco di pochi
istanti e il regno del sogno pareva per qualche istante invadere quello della
veglia, amalgamandosi con esso in una soluzione senza apparente continuità.
“Sono
preoccupato, Rucker. Abbiamo di fronte tanti, troppi guai.”
“Guai,
guai, guai a tutti noi…”
“Come?”
“No,
niente. Reminiscenze dei miei studi giovanili.”
“Leggevi
la bibbia?”
“Ogni
tanto ci ricasco. Al di là di qualche cosa che proprio non riesco a digerire,
rimane una delle letture più avvincenti che conosca e, se sai leggere tra le
righe, ci si trova persino della saggezza. Si, la situazione sta precipitando.”
“Ci sono
diversi fronti:” fece contando sulle dita, “ il caso del tuo
misterioso killer di criminali, i due vigilantes che hanno compiuto una vera e
propria strage e di cui ormai la stampa parla apertamente, il Demone, i Jong, e
quello che mi ha raccontato Abel riguardo l’esplosione avvenuta agli Hermes
labs; con lui mi sto coordinando per quanto riguarda il secondo, il quarto e il
quinto caso. Dobbiamo stabilire se qualcun altro sapeva delle ricerche di
Warren e se le sta sfruttando in modo tanto sconsiderato.”
“Quando
si dice i rischi della bio tecnologia.”
“Ora però
sono qui per parlare di un caso in particolare: il primo.”
“Volevo
proprio comunicarti gli ultimi progressi fatti da Asa Pabst.”
“Sembra
uno veramente in gamba.”
“Lo è.”
“Non ne
avevo mai sentito parlare.”
“Ha
risolto tanti casi ma non è il tipo da circo mediatico, né tanto meno da
manovre politiche per raggiungere posizioni di prestigio. A lui interessa solo
una cosa: risolvere i casi; ci lavora su con tutta l’anima e il fiato che ha in
corpo. È come un mastino che ostinato segue una traccia dopo averla fiutata e
quando alla fine addenta il suo osso, beh, credimi, è una vera forza della
natura.”
“È il Mangiapeccati?”
Si
alzò un leggero vento che carezzò i loro volti. Sentirono alcune macchine
e un paio di biciclette passare giù, in strada. L’umanità si stava ridestando e
si dirigeva diligentemente ad assolvere i propri doveri, i propri compiti.
Qualcuno felice e grato per la vita che gli veniva data. Qualcuno desiderando
di poter scappare via, lontano, dove non ci fossero ne doveri o compiti a cui
assolvere. Altri ancora, persino, che quella stessa vita gli venisse tolta
nella maniera più rapida ed indolore possibile.
“Perché
secondo te Dio lo fa?” Replicò Rucker con lo sguardo fisso verso un punto non
ben definito del tranquillo panorama di Forest Hills.
“Che
cosa?”
“Quando
ci ha creati, intendo tutti noi, perché non si è fatto il fedele perfetto.
Voglio dire, la Galassia è abitata da centinaia di migliaia di specie diverse,
giusto? Ormai la vita nello spazio è una realtà nota a tutti, talmente scontata
da apparire quasi banale: Kree, Skrull, Shi’Ar, Rigelliani e poi noi, il popolo della Terra, solo per
citarne qualcuno; feroci guerrieri, assassini, spergiuri, bestemmiatori e
compagnia bella. Facciamo tutto fuorché celebrarlo, fuorché festeggiare lui e
il miracolo della vita che ci ha dato. Lo preghiamo solo quando c’è una
convenienza, o quando abbiamo paura. Quanti veramente lo amano,
incondizionatamente, spontaneamente, sinceramente? Molti pochi, dico io. Troppo
pochi. Davvero trova tollerabile tutto ciò?”
“Perché
me lo chiedi? La questione è interessante ma è un campo che esula un po’ da
quelli di cui, di solito, mi occupo.”
Rucker
prese una sigaretta da un pacchetto mezzo accartocciato che teneva in tasca. Se
ne era scordato ma l’averlo ritrovato era stata una felice scoperta.
“Mi pongo
spesso questa domanda. Mi chiedo se esista o no una risposta. Se una risposta
non ci fosse, se dietro a tutto questo non ci fosse un senso, allora penso che
sarebbe davvero terribile questa vita.”
“Gli
uccelli.”
“Gli
uccelli?”
“Hai mai
visto uno stormo di tordi volare?”
“Si.”
“Uno
stormo di tordi non ha un leader, un capo che li guidi. Nessun direttore
d’orchestra che dirige i vari componenti. Eppure, non uno di loro, sbaglia una
manovra e ognuno sa come muoversi. Nessuno di loro sa come o perché. Ignorano
quale sia la motivazione ma questo garantisce il raggiungimento di un fine: la
loro sopravvivenza; anche noi ci muoviamo, spostandoci da una parte all’altra
di questo pianeta, dello spazio e da qualche anno a questa parte persino
attraverso il tempo. Lo stesso vale anche per tutti gli altri, skrull o kree
che siano. Nessuno sa perché lo fa. Ci sono le motivazioni, quelle
dell’interesse immediato, quelle filosofiche e religiose. Per qualcuno è
questione di vendetta. Per altri è l’amore il motore di tutto. Forse siamo
anche noi come uno stormo di tordi. Ci muoviamo in uno stormo solo
apparentemente caotico e siamo diretti verso un fine che singolarmente non
riusciamo a capire. Forse in un futuro, chissà, ci sarà la risposta alla tua
domanda. Forse quella risposta non ti piacerà, o forse placherà i dolori del
tuo animo.”
Rucker
rimase qualche istante in silenzio. Poi rovesciò il capo esplodendo in una
fragorosa risata a cui Peter replicò con un composto sorriso.
“Sai che
più ti conosco, più penso che saresti stato un buon prete.”
“Un buon
prete deve avere fede. Temo di essere manchevole in questo.” Fece notare lui
divertito.
“Ma tu,
mi hai raccontato, che la morte l’hai vista. Intendo la Morte con la m
maiuscola. Hai visto spiriti, l’al di là, dei persino. Come fa a mancarti la
fede?”
“Forse
ciò che mi manca, è il tipo più importante di fede: che alla fine ci sia la
salvezza.”
“Da te
non mi sarei mai aspettato una simile affermazione.” Era sincero in
quell’affermazione.
“Perché?
Solo perché combatto ogni giorno. Perché mi infilo un costume con un ragno
cucito sul petto e mi lancio in un canyon d’acciaio, giorno dopo giorno, facendomi pestare,
accoltellare, sparare. Per questo dovrei avere fede? Ho speranza, questo si. Ho
visto mio zio morire per un mio errore. Era riverso in terra, fradicio del suo
stesso sangue, coperto da un telo bianco e tutto questo per la mia tracotanza.
Per la mia arroganza. Ho visto Goblin uccidere il mio primo grande amore. No,
l’ho uccisa io, per colpa di un mio sbaglio di calcolo. L’ho visto morire e
portarsi nella tomba la sanità mentale del mio migliore amico che ha mandato a
pezzi la sua stessa famiglia e quasi uccideva me. Gli ho visto fare questo solo
per vederlo poi risorgere dalla sua tomba, dove sarebbe stato meglio per tutto
il mondo che rimanesse. Non c’è un solo giorno in cui non tema che a quello
psicopatico torni la memoria e che ridiventi ancora una volta Goblin. Sono
stato costretto in una morte apparente da una dei miei peggiori nemici.
Umiliato, imprigionato ancora vivo in una tomba ricoperta di putrida terra e
poi ho scoperto che ero, forse, l’unica persona che avesse mai amato in tutta
la sua malata e delirante vita. Vuoi che vada avanti con l’elenco? Non ce ne è
bisogno. Da quando ti conosco ti ho raccontato così tanto di me. Delle volte me
ne sorprendo ma non me pento, sai? Ho speranza. Nonostante tutto questo,
nonostante la paura che delle volte mi paralizza mentre sono nel mio stesso
letto, sdraiato accanto a mia moglie e con mia figlia tra le braccia. Ho
speranza, perché voglio sperare, con ogni fibra del mio essere, con ogni
scintilla che brucia in quella piccola ed evanescente anima che ho visto uscire
dal mio stesso corpo. Ma la fede? No. Quella è qualcosa di diverso. Io non ho
fede. È finita il giorno in cui la superbia mi è costata la vita dell’uomo che
mi aveva allevato come un figlio. È finita nel giorno in cui ho sentito il
sinistro rumore dell’osso del collo di Gwen che si spezzava a causa della mia
stupidità. È finita lì, sotto terra, quando sono stato abbracciato dalla morte.
Non ho mai smesso di sperare, mai. Ma la fede è morta da tempo. Non sono l’Uomo Ragno per vocazione. Sono
l’Uomo Ragno, forse, per necessità. Perché quando ho quella maschera su, posso
risparmiare ad altri il dolore che mi sono portato dietro per tanti anni.
Quando guardo il mondo da dietro quelle lenti a specchio riesco a trovare la
speranza nei volti di quelli che salvo. Perché quando sono lassù riesco a
sentire di avere la forza per salvare le persone che amo. Io sono l’Uomo Ragno
per necessità.”
Rucker
carezzò il volto di Peter.
“Non
saprei immaginare un Uomo Ragno migliore. Ringrazio Dio per avercene dato uno
così bravo. Un uomo così buono ed onesto.”
“Non lo
sono. Però forse hai ragione, non sono così male come tessiragnatele.”
Risero
insieme.
“Ora
dimmi, Terenzio, te ne prego. È il Mangiapeccati?”
“Si.”
“Un suo
emulo?”
“Asa
Pabst mi ha detto una cosa. Una cosa che mi ha sconvolto e che non ero sicuro
di volerti dire.”
“Arrivati
a questo punto sono pronto a tutto.”
“Pensa
che non si tratti di un emulo.”
“Non dirmi
che Stan Carter è uscito dal cimitero per tornare a tormentarmi. Non ci credo.
Ormai è un cliché troppo abusato. Norman Osborn potrebbe fargli causa. Inoltre
vado periodicamente a controllare che l’urna con le sue ceneri sia conservata
dove dovrebbe essere. Di lui rimane solo il cervello che studia la Sezione di
Criminologia dell’F.B.I. Stan è morto e lo è tutt’ora. Quello che il tuo amico
teme è che il copycat non sia questo.”
“Si.”
Peter
ebbe un sussulto. Si portò le mani alla bocca, e lasciò che qualche lagrima
scivolasse via, portandosi dietro l’amarezza di cui non desiderava più la
presenza.
“Ti
ricordi quando ti ho elencato, per l’ennesima volta, tutte le disgrazie della
mia vita? Avevo dimenticato di inserire questa storia. Quest’ennesima tragedia che
si è abbattuta su di me e peggio ancora su chi amavo. Sai, la De Wolff mi
piaceva davvero. La consideravo una mia ottima amica anche se non la conoscevo
molto. Mi ha sempre spalleggiato, anche quando tutti mi davano addosso. Non
puoi capire quanta gioia provassi quando, dopo essere stato coperto di insulti
nonostante magari avessi sventato una rapina, vedevo la sua faccia e quel suo
sorriso così dolce e ruvido allo stesso tempo. Mi manca. Mi mancherà sempre.
Non lascerò però che stavolta il dolore mi strappi la ragione, togliendomi
tutto il fiato dal corpo. Sono stanco di essere alla mercé
del destino. Sono stanco di essere il nerd preso di mira dal bulletto
più grande e cattivo della scuola. Ora tu mi dici che questo potrebbe essere
stato l’assassino che ha ispirato Stan Carter?”
“L’ipotesi
di Pabst spiegherebbe molti delitti irrisolti del passato che sembravano
compiuti da Stan per via delle modalità ma che cronologicamente non tornavano.
Il dubbio c’è sempre stato, in realtà ma chi di dovere ha sempre preferito non
fare troppa pubblicità alla cosa. Anche lo S.H.I.E.L.D. premette in questo
senso. Volevano che tutto fosse dimenticato al più presto. È stato molto
irresponsabile da parte loro.”
“No. Sono
stati dei veri stronzi.”
Ancora
una volta risero, anche se la loro era una risata amara. Terenzio Oliver Rucker
mise una mano sulla spalla di Peter Parker e assentì con il capo.
“Adesso
però è diverso. Non potranno più impedirci di cercare la verità.”
“Anche se
quando la troveremo non ci piacerà?”
“Anche se
quando la troveremo non ci piacerà.” Confermò Peter. Terenzio gli consegnò il
fascicolo che avrebbe studiato di ritorno a casa, dopo il lavoro sul quale, per
il momento, desiderava concentrarsi.
Rimase
solo quando l’amico se ne andò. Aveva bisogno di qualche minuto per schiarirsi
le idee.
Non è
vero.
“Chi ha
parlato?” Si girò di scatto. Era successo qualcosa, improvvisamente. Non era
vero. Lo sapeva. Era da quando era arrivato lì che stava succedendo. Il suo
senso di ragno aveva leggermente ondeggiato, come scosso da una leggera brezza
ma non era una sensazione fastidiosa.
È vero
che sei l’Uomo Ragno per necessità. È però altrettanto vero che tu lo sia per
vocazione. Sei passato attraverso la catarsi del dolore. Hai camminato nella
valle della morte. Hai perso e sei caduto nella polvere ma ti sei sempre
riscattato rialzandoti in piedi. Per speranza, si. Per fede, anche. Per quella
fede che arde dentro di te, con gioiosa veemenza e che temi di ammettere anche
con te stesso. Se lo facessi, dovresti riconoscere quello che forse hai solo
intuito: sei sempre stato destinato ed essere quello che sei; e se questo fosse
vero, allora il tuo fallimento con zio Ben e con gli altri sarebbe ancora più
grave. Ma oggi, qui, io ti dico che nonostante il tuo Fato, non puoi evitare il
fallimento. Non sei perfetto, né invincibile. Però hai la forza di arrivare la
dove agli altri è negato. Hai la volontà di compiere l’impossibile, ribaltando
ciò che il futuro spesso ha in riserbo per te. Non avere paura, Uomo dei Ragni.
Non temere Peter Parker.
“Ma tu
chi sei? Perché te ne stai nascosto nell’ombra?”
Perché
sei tu che vuoi che io stia seduto nell’ombra. Quando vorrai guardare il mio
volto e scrutare nei miei occhi, non dovrai far altro che chiamarmi per nome.
“Tu sei
quello che mi ha salvato quando ero a Faer?”
Tu ti
salvasti, in quell’occasione.
“E sei
quello che mi ha guarito dopo lo scontro con lo Scorpione.”
Solo
perché il tuo desiderio di vita era talmente forte che ho potuto compiere
quell’impresa. Non sottovalutare i poteri che ti sono stati dati quel giorno,
Uomo dei Ragni, sarebbe un grave errore. Ancora più grave sarebbe sottovalutare
la forza che risiede in te sin dalla nascita, Peter Parker.
“Andrai
via, ora?”
Tornerò
quando vorrai. Ho cantato con tuo fratello qualche giorno fa. Canteremo io e te
quando sarà il momento. Per ora va in pace, figlio mio.
E quel
giorno Peter Parker andò in pace.
Fine
episodio.
Per
critiche, commenti, suggerimenti, rimproveri, insulti, scrivere a spider_man2332@yahoo.com
Grazie
ancora una volta a tutti quanti voi.
A
chi mi ama così, per quello che sono, sopportando giorno dopo giorno tutte le
mie bizzarre abitudini.
Grazie
davvero.
Grazie
a tutti quanti i miei amici, pochi ma sinceri.
Grazie
a tutti quanti quelli dello staff di Marvelit che mi seguono con grande
pazienza.
E,
ovviamente, grazie a tutti quanti voi, miei cari, pochi ma buoni, lettori.
Tanto lo sapete, no? Senza di voi che scriverei a fare?